Il Fungo
di Giovanni Castagna
In
questo nostro susseguirsi di ore raziocinanti, caratteristica
ormai d'una vita disillusa che ha perso del tutto il gusto
della favola, prestiamo fede, per un attimo soltanto, al mito
di Tifeo. A quel Tifeo che, folgorato dal fulmine tricuspide,
giace sotto il non lieve peso dell'isola d'Ischia.
Tifeo nacque da un atto di ribellione (quando
si dice il destino!) della dea Giunone andata su tutte le
furie perché suo fratello e sposo, Giove, senza il
suo concorso di legittima consorte, aveva generato Pallade-Atena,
meglio conosciuta con il nome di Minerva. E a niente, presso
di lei, valsero le scuse del padre degli uomini e degli dei.
La Fama, infatti, ancella di Giove, aveva sparso la voce che,
tormentato da atroci dolori al capo che per poco non lo facevano
impazzire, questi aveva pregato il fabbro-ferraio Efesto-Vulcano
di dargli un'accettata in testa con la scure bene affilata.
Efesto-Vulcano non voleva, ma nello stesso tempo temeva l'ira
di Giove, ricordandosi di quando questi lo aveva scagliato
dall'Olimpo nell'isola di Lemmo in un modo che ancor l'offendeva,
difatti era rimasto zoppo. Per il che non esita e con colpo
da artista gli spacca la testa in due. Ed ecco balzare di
sotto il cervello di Giove una bellissima fanciulla, tutta
in armi, che scuote lo scudo e l'asta: la glaucopide Pallade-Atena.
Ma Giunone, ben conoscendo il suo sposo nonché fratello,
non credette affatto a quella singolare cura d'emicrania divina
e volle, anch'ella, generare senza il legittimo concorso del
marito. Non si sa come, né con chi, ma generò
Tifeo, il quale, poveretto, anche per questo fu odiato da
Giove, nonostante che legalmente fosse suo figlio.
Tifeo ben presto si ribellò al padre Giove e con altri
giganti iniziarono quella leggendaria sassaiòla, che
ha commosso più d'un poeta, dal tempo antico ai nostri
giorni A dire il vero, la sassaiòla non è priva
d'un certo fascino: Tifeo ti sovrappone con estrema facilità
il monte Ossa al Pelio; Giove, per il momento, è impotente
dato che il titano gli ha tagliato i nervi. Ma c'è
Mercurio, l'esile e delicato Mercurio, il quale aveva una
certa grazia nel fregar la gente. Non c'è da meravigliarsi,
dunque, se riesce a ridare a Giove i nervi, rubandoli a Tifeo.
Giove tutto contento gli dà uno scappellotto, "Guarda!",
gli dice e lancia il fulmine tricuspide. Poi afferra un'isola,
senza badare ch'era quella che Venere aveva scelto a sua dimora,
e la scaglia addoso a Tifeo prima che si riprenda dallo choc
traumatico, causatogli dal fulmine. Mercurio applaude e, non
volendo essere da meno, afferra un macigno, adatto alla sua
forza, e lo scaglia. Ma sbaglia mira. E da quel giorno il
macigno, lanciato da Mercuio, è sempre là, distante
un cento metri dall'isola lanciata da Giove.
Ed un giorno a quello scoglio approdò Venere. Fuggiva
l'ira del suo legittimo sposo, Efesto-Vulcano, quel dio, cioè,
che aveva fatto da ostetrico a Giove per il parto di Pallade-Atena.
Efesto era rimasto meravigliato, attonito a tanta bellezza,
nata dal cervello di Giove. Se ne era innamorato ancor più
quando la vide ballare la pirrica, la danza armata, e l'aveva
chiesto in isposa a Giove, dimenticando Venere, sua legittima
sposa. Di questo affronto volle vendicarsi la dea e tradì
il suo sposo con Marte, mentre Gallo, l'auriga di questi,
montava di guardia. Venere si era tanto raccomandata: "Dài
l'allarme allo spuntar del sole. Sta attento: il sole è
amico di mio marito, che nelle fucine dell'Etna gli forgia
i raggi". Ma Gallo si addormentò e il sole fece
da guida a Vulcano per sorprendere la moglie mentre accoglieva
sul suo divino grembo Marte. Questo poi condannò Gallo
a cantare per l'eternità lo spuntar del sole, ma Venere
dovette fuggire e con le sue ninfe aprodò allo scoglio,
che Mercurio aveva lanciato contro Tifeo, sbagliando mira.
- Fermiamoci, mie pupille. Fermiamoci su questo scoglio. Qui
ci blandirà come sogno l'onda e, azzurro come l'onda,
il nostro sogno ci allieterà d'amori a noi negati.
E le ninfe, per distrarre la dea, su quello scoglio ignudo,
cantarono d'amore senza nalinconia. E linee tonde e rette,
pelurie, curve, tremiti divini si misero a danzare. D'un tratto
sembrò che quel macigno avesse un fremito. Poco distante,
sulla sponda, c'era un'erba marina, fredda e salata, ma nel
più profondo un umano sentimento sanguinava. Venere
aprì stupita le braccia dicendogli il suo nome, emergendo
leggera fino alla trasparenza dalla profondità dove
brillava un desiderio, il desiderio del Titano Tifeo.
- Tu, o dea, che reggi l'universo con l'amore, accogli, o
alma Venere, il mio desiderio. Sì, lo so... su questa
terra che m'incatena scorrono ruscelli, lavacri ad ogni dolore
ed eternamente la giovinezza sorride. Ma tu, o dea, fa che
il mio nome non cada nell'oblio. Fa che qualcosa, o dea, di
lontano richiami lo sguardo ed il ricordo; in quel qualcosa,
o dea, fa che tutti riconoscano e sussurrino: quella è
la terra che incatena Tifeo! C'è tanta bellezza, sì
è vero, sulla terra che mi schiaccia, ma tu, o dea,
comprendi. Son tanto belli i tuoi occhi e i tuoi capelli al
vento, ma lo sguardo degli dei s'affisa, ti riconosce e ti
ricorda per quel tuo seno.
Le ninfe arrossirono al rossore di Venere. Ma la dea sorrise.
- Dammi la mano, o titano.
L'isola ebbe un tremito, un sussulto. Il titano alzò
un braccio che, a mezz'aria, sembrava una minaccia e l'ombra
atterrì le ninfe. Venere carezzò quella mano.
- La tua mano è ferita. Sanguina. Hai il mignolo e
l'anulare stroncati. Soffri? -
Il titano non rispose. Venere commossa sembrò portarsi
quella mano al petto. Certo, come d'incanto, non sanguinò
più. Solo un rivoletto, venatura di sangue sul seno
della dea, che pianse, ricordando forse Atteone, il giovanetto
da lei amato e che la gelosia di Marte aveva fatto dilaniare
da un cinghiale. Invocò l'aiuto del re degli abissi
marini e Nettuno con il tridente sollevò lo scoglio
che Mercurio aveva lanciato.
- Poggia il tuo braccio nelle profonde convalli marine, o
sfortunato titano - sussurrò la dea. Tifeo ubbidì
e Nettuno poggiò quello scoglio sulle tre dita, rinvigorite
per l'eternità, del gigante vinto. E le ninfe, a un
cenno della dea, abbandonarono Venere e si confusero con le
onde, con il mare, il quale, da secoli, ora carezzando quello
scoglio in risacca, ora schiaffeggiandolo con i marosi, ha
dato ad esso la caratteristica forma di Fungo.
Ed il Fungo, d'allora, non è solo uno scoglio, caratteristica
d'un panorama, ma esso stesso un panorama. Da secoli è
il nume tutelare, il Genio del luogo. E quando le onde, le
antiche ninfe di Venere, carezzandolo gli parlano d'altissimi
monti e stelle alpine; di laghi, di fiordi, dei templi e dei
porti; delle aurore boreali, dei fiori dei tropici e di ogni
incredibile bellezza del mondo, egli sorride alla cristallina
nudità marina e par che sussurri: tutti gli anni
mi delizia April con gli altri mesi nel mio mare, nel mio
giardino. Io amo un'isoletta qui che sempre davanti mi sta. a San Nicola di Bari. Il culto di questo santo fu introdotto
forse nel '500 all'epoca delle scorrerie piratesche.