La Campania
nella Geografia di Strabone
(...)
Parliamo dapprima della Campania (**).
Da Sinuessa (1) la costa che si prolunga fino a Miseno forma un ampio
golfo e successivamente un altro golfo, molto più grande del
primo, chiamato il Cratere (2), che si allarga tra i due capi di Miseno
e dell’Ateneo (3). All’interno di questo litorale si estende
tutta la Campania, la piana più favorevole fra tutte, circondata
da fertili colline e dai monti dei Sanniti e degli Osci. Antioco dice
che questa regione fu popolata dagli Opici, detti anche Ausoni. Polibio
invece distingue due popoli, quando afferma che gli Opici e gli Ausoni
abitavano il paese intorno al Cratere (4). Altri dicono che la Campania
fu abitata prima da Opici e Ausoni, poi passò alle genti osche
dei Sidicini, ai Cumani e ai Tirreni, richiamando questi conquistatori
la feracità del suolo. I Tirreni vi fondarono dodici città,
dando il nome Capua (5) a quella che ne era come il capoluogo. Il
loro benessere li fece diventare molli e fiacchi; e come dovettero
già lasciare la pianura del Po, così in Campania furono
sopraffatti dai Sanniti, i quali a loro volta non riuscirono poi ad
evitare la supremazia dei Romani.
Prova della grande fertilità è il fatto che qui si produce
la miglior qualità di grano, di quel frumento cioè con
il quale si fa il “fior di farina”, preferibile alla farina
del riso e di altri cereali. Si racconta che in qualche parte della
Campania si hanno nel corso di un anno due colture di spelta, una
terza di miglio, e a volte una quarta di legumi. Di qui i Romani inoltre
fanno venire i loro migliori vini, come il Falerno, lo Statano e il
Caleno; e comincia a farsi preferire anche il Sorrentino, in quanto
si presta molto all’invecchiamento. Infine ricca di olivi è
tutta la regione di Venafro che confina con questa campagna.
4. Dopo
Sinuessa, tra le città costiere, c’è innanzitutto
Literno (6), dove s’eleva il sepolcro di Scipione, che per primo
ricevette il soprannome di Africano: qui egli passò gli ultimi
suoi anni, dopo aver lasciato la politica attiva per l’ostilità
verso alcuni personaggi. Vi scorre un fiume che ha lo stesso nome
della città. Così anche il Volturno (7) ha lo stesso
nome della città che attraversa; esso scorre per Venafro e
per la parte mediana della Campania. Dopo queste città c’è
Cuma, colonia antichissima dei Calcidesi e dei Cumani (8), la più
antica fra quelle di Sicilia e d’Italia (9). Ippocle cumano
e Megastene calcidese, i quali guidavano la spedizione, convennero
tra loro che agli uni sarebbe stata attribuita la colonizzazione,
degli altri la colonia avrebbe assunto il nome; ecco perché
la città si chiama Cuma, mentre si parla di fondazione calcidese.
Un tempo questa era terra prospera, come la piana chiamata Campi Flegrei
(10) dove si colloca il mito dei Giganti, non per altro, ma per il
fatto che a suscitare lotte e antagonismi fosse la feracità
di questa terra. In seguito i Campani, diventati padroni della città,
furono molto violenti contro gli uomini e si spinsero a convivere
con le loro donne. Sono ancora vive le tracce delle istituzioni greche
sia nelle cerimonie religiose che nella pratica delle leggi. Alcuni
ritengono che il nome Cuma derivi dalla parola kumata (onde), poiché
le rive vicine sono rocciose e battute dai frangenti. Viene anche
praticata dai Cumani una ottima pesca di grandi pesci.
All’interno di questo golfo si trova una foresta di arbusti,
estesa molti stadi, priva di acqua e sabbiosa, chiamata Selva Gallinaria
(11). Qui si unirono ai pirati gli ammiragli di Sesto Pompeo, quando
questi sollevò la Sicilia contro Roma.
5. Presso
Cuma si trovano il Capo Miseno (12) e, nel mezzo, il lago d’Acheronte,
una specie di canale paludoso. Doppiato il Capo Miseno, proprio alla
base del promontorio c’è un porto, dopo il quale la costa
forma un’insenatura di notevole profondità, in cui vi
sono la città di Baia e le sue acque termali apprezzate sia
come occasione di piaceri, sia come rimedi contro le malattie. Si
susseguono il golfo Lucrino e più all’interno di questo
l’Averno (13), che forma quasi un’isola di quella terra
che si stende dalle sue plaghe e da Cuma fino a Miseno. Il resto è
un istmo di pochi stadi, attraverso il tunnel che porta a Cuma stessa
e al mare.
Gli antichi favoleggiavano che nell’Averno si fosse svolta la
scena omerica dell’evocazione dei morti; si narrava infatti
che qui si trovasse un oracolo dei morti e che Ulisse fosse giunto
a questo santuario. L’Averno è un golfo con una stretta
apertura e profondo presso la costa, con caratteristiche e dimensione
di porto, ma non utilizzabile in tal senso poiché tra esso
e il mare s’interpone il golfo Lucrino non molto profondo. L’Averno
è circondato da erti declivi che lo sovrastano d’ogni
parte, tranne all’entrata , ora messi a cultura, ma prima coperti
da una foresta selvaggia di grandi alberi, impenetrabile, per cui
tutto il golfo restava avvolto nell’ombra. Gli indigeni raccontavano
che gli uccelli levandosi in volo cadevano nell’acqua, uccisi
dai vapori mefitici esalanti dal luogo come fosse l’ingresso
delle sedi infernali di Plutone. Regione di Plutone si diceva appunto
questo luogo, in cui peraltro si collocava la leggenda dei Cimmeri
(14). Vi entravano con barche quelli che volevano offrire sacrifici
e implorare gli dei inferi, essendovi anche dei sacerdoti addetti
allo svolgimento dei riti. Qui vi è anche una sorgente di acqua
dolce nei pressi del mare, da tutti trascurata poiché ritenuta
acqua dello Stige. Qui s’eleva il santuario dell’oracolo.
Data la presenza delle acque termali e della palude Acherusia (15)
si pensava al Piriflegetonte (16), fiume infernale. Eforo, che pone
in questo luogo i Cimmeri, dice che essi abitavano in dimore sotterranee,
chiamate arghìllai, comunicanti tra loro attraverso alcune
gallerie per le quali gli ospiti venivano condotti al santuario dell’oracolo,
posto nella profondità della terra. Vivevano con il lavoro
delle miniere e con la consultazione degli oracoli; anche il re aveva
accettato il loro ordinamento. Secondo l’uso profetico antico,
nessuno poteva vedere il sole e si poteva uscire dalle caverne soltanto
di notte. E questo fece dire al poeta nei loro riguardi:
Giammai il sole coi suoi raggi arriva a guardarli.
Esso fu poi distrutto da un re insoddisfatto del responso ricevuto
, ma l’oracolo continuò la sua attività, trasferito
in altra sede.
Questo è quanto ci hanno lasciato scritto gli antichi; ora,
dopo che Agrippa ha tagliato la foresta dell’Averno e che sono
state costruite abitazioni a Baia e che dall’Averno a Cuma è
stata scavata una galleria sotterranea, tutte queste cose si sono
rivelate essere delle leggende; Cocceio che ha costruito questa galleria
e quella che da Dicearchia conduce a Napoli, ha seguito l’esempio
dei Cimmeri, come è stato riportato. Si potrebbe pensare che
egli abbia ritenuto conforme alla tradizione antica far passare in
questo luogo delle strade attraverso delle gallerie.
6. Il
golfo Lucrino arriva fino a Baia ed è separato dal mare esterno
a mezzo di un molo (17) lungo otto stadi e largo quanto una carreggiata;
lavoro eseguito, come si dice, da Ercole quando conduceva le vacche
di Gerione. Poiché la sua superficie viene durante l’inverno
colpita dalle onde, sicché non si può passare a piedi,
Agrippa l’ha fatto sopraelevare. È navigabile con battelli
leggeri, ma non è adatto per gli approdi; apprezzabile è
la pesca delle ostriche. Alcuni dicono che questo golfo corrisponda
al lago Acherusio; Artemidoro che esso è l’Averno.
Si dice che Baia (18) sia stata così chiamata da Baio, uno
dei compagni di Ulisse, come Miseno da Miseno
Segue il litorale di Dicearchia e la città stessa, che in origine
era un porto costruito dai Cumani presso il ciglio della roccia; poi
vi si stabilirono i Romani, dopo la guerra contro Annibale e cambiarono
il nome in Puteoli (Pozzuoli) per la presenza dei pozzi. Alcuni fanno
derivare tale denominazione dall’odore puteolente delle acque,
essendo tutta la regione fino a Baia e a Cuma piena di solfo, di fuoco
e di sorgenti calde. Si pensa inoltre che anche per questo Cuma sia
stata chiamata Flegra e che le stesse emissioni di fuoco e di acqua
abbiano provocato per folgorazione le ferite dei Giganti qui caduti.
La città è stata un grande emporio, una volta realizzati
artificialmente ancoraggi grazie alla favorevole natura del terreno,
che è infatti adatto alla calce e si salda e consolida facilmente.
Per cui mescolando ghiaia, pietre e calce, si costruiscono dighe verso
il mare e si formano delle ampie anse in modo che con sicurezza si
possano ormeggiare le grandi navi mercantili. Si vede, subito dopo,
l’Agorà di Efesto (19), una piana circondata da balze
ardenti, simili a fornaci aventi in molti luoghi sfiatatoi che diffondono
tutt’intorno un odore notevolmente nauseabondo; la regione è
infatti piena di emanazioni di solfo.
7. Dopo Dicearchia vi è Napoli, fondata dai Cumani; poi l’abitarono Calcidesi, Pitecusani e Ateniesi, e per questo fu detta anche NéaPolis; qui si trova il sepolcro di una delle Sirene, Partenope, e seguendo il consiglio di un oracolo si svolgono dei giochi ginnici. Più tardi, essendo sorte delle discordie al loro interno, accolsero nel loro paese alcuni Campani, e furono costretti a considerare dei nemici come i più stretti congiunti, poiché trattavano come stranieri i veri fratelli. I nomi dei demarchi mostrano i primi gli avvenimenti ellenici, quelli successivi gli avvenimenti misti, ellenici e campani. Si conservano qui moltissime tracce della presenza greca, come i ginnasi, i ritrovi degli efebi, le fratrie, i nomi greci, pur quando fu romana la popolazione. Attualmente si svolgono qui ogni cinque anni dei giochi sacri con musica e ginnastica, della durata di vari giorni, alla pari con quelli più celebri della Grecia. Vi è anche una galleria sotterranea, scavata nella montagna tra Dicearchia e Napoli, simile a quella di Cuma: essa presenta una strada carrozzabile di vari stadi e a due carreggiate. Inoltre, grazie ad aperture praticate in alcuni punti della montagna, la luce del giorno penetra in tutto il tunnel, nonostante la sua grande profondità. Napoli possiede sorgenti di acque termali e stabilimenti balneari che fanno il paio con quelli di Baia, anche se sono meno frequentati, perché a Baia è nata in verità una seconda città, grande come Dicearchia, dopo che vi sono stati costruiti palazzi attaccati gli uni agli altri, in un continuo susseguirsi. Di converso, l’afflusso a Napoli di coloro che la prediligono per la sua tranquillità e perché la loro età o la loro debolezza li porta a desiderare una vita serena, dopo aver svolto a Roma l’insegnamento o altro mestiere, porta e sviluppa in questa città le abitudini greche. E anche molti Romani, avvinti da questo genere di vita e vedendo che molti vi si sono stabiliti per il gusto delle medesime abitudini, vi soggiornano con piacere e decidono a loro volta di trascorrervi la loro vita (20).
8. Nelle
vicinanze c’è la Fortezza di Eracle (21), avente un promontorio
sporgente nel mare, battuta continuamente dai venti di SO, facendone
un luogo salubre. Questa e la confinante Pompei, bagnata dal fiume
Sarno, furono occupate dagli Osci, poi dai Tirreni e dai Pelasgi,
e quindi dai Sanniti, poi anch’essi cacciati da questi luoghi.
Pompei, grazie al fiume Sarno usato per importare ed esportare merci,
funge da porto per le città di Nola, Nuceria e Acerra, località
omonima di quella presso Cremona.
Domina la regione il monte Vesuvio, tutt’intorno, tranne la
cima, occupato da bellissime campagne. La sommità è
in gran parte piana, ma del tutto sterile. Il suolo ha l’aspetto
della cenere e presenta delle cavità simili a pori di rocce
dal colore di fuliggine, per cui si direbbe che siano state corrose
dal fuoco. Si potrebbe così pensare che questo luogo sia stato
prima bruciato e che abbia crateri di fuoco, ma che si sia spento
per mancanza di ulteriore alimentazione. Forse la stupenda fertilità
delle terre circostanti ha senz’altro la stessa causa, di cui
si parla per Catania, dove si dice che le superfici ricoperte dalle
ceneri portate dal fuoco dell’Etna sono particolarmente favorevoli
ai vigneti. Infatti la lava vulcanica concima i terreni appena bruciati
e fa che diano ottimi raccolti. I terreni, quando ne rigurgitano,
sono pronti a bruciare, ma appena, quella esauritasi, si sono spenti
e trasformati in cenere, diventano adatti alla produzione.
Nei pressi di Pompei si trova Sorrento, città campana, dove
spicca l’Ateneo, chiamato da alcuni scrittori il Promontorio
delle Sirene. Alla punta del promontorio s’innalza un tempio
dedicato ad Atena e costruito da Ulisse. Di qui all’isola di
Capri breve è la traversata. Appena doppiato il capo, si presentano
delle piccole isole deserte e rocciose denominate le Sirene. Da Sorrento
poi si scorge un santuario con antichissimi doni votivi, offerti da
quelli che veneravano questo luogo. Qui termina il golfo conosciuto
con il nome di Cratere, delimitato da due promontori orientati verso
mezzogiorno, il Capo Miseno e l’Ateneo, e arricchito lungo la
sua estensione sia dalle città già citate, sia, negli
spazi intermedi, da residenze e piantagioni le une vicine alle altre,
che offrono nel loro insieme l’aspetto di una sola città.
PITECUSA
9. Di
fronte al Capo Miseno c’è l’isola di Procida, che
è un pezzo distaccato di Pitecusa (22). Pitecusa fu colonizzata
da Eretriesi e Calcidesi, i quali, sebbene vi prosperassero per la
fertilità del suolo e per le miniere d’oro, l’abbandonarono,
(innanzitutto) per discordie tra loro, in seguito anche perché
atterriti dai terremoti e dalle eruzioni di fuoco, del mare e di acque
calde. L’isola è infatti soggetta a tali emanazioni,
per cui anche i nuovi coloni mandati da Ierone, tiranno di Siracusa,
abbandonarono sia la fortezza da essi costruita, sia l’isola.
Vi giunsero poi e l’occuparono i Napolitani.
Di qui si diffuse la leggenda che sotto quest’isola giace Tifeo,
e che, quando egli si agita, vengono fuori fiamme e acque, e a volte
anche piccole isole aventi acque bollenti (23). Per cui giustamente
Pindaro, partendo appunto da fatti abbastanza noti, scrisse che il
tratto da Cuma alla Sicilia è vulcanico e che nelle sue profondità
si nascondono certi anfratti comunicanti attraverso un unico condotto
sia tra loro che con il continente. Donde emerge che hanno la stessa
natura sia l’Etna, come si trova riportato in tutte le descrizioni,
sia le isole Lipari, la regione di Dicearchia, Napoli, Baia, e infine
l’isola di Pitecusa. È dunque con cognizione di cause
che Pindaro ha potuto indicare Tifone giacente contemporaneamente
sotto tutti questi luoghi:
Or dunque
opprimono il suo petto irsuto
sia le rive di Cuma cinte dal mare,
sia l’isola di Sicilia.
Timeo riporta inoltre che presso gli antichi era diffusa una serie
di fatti straordinari sull’isola di Pitecusa. Poco prima dei
suoi tempi il monte Epomeo, che si eleva nel mezzo dell’isola,
fu scosso da terremoti ed eruttò fuoco e rigettò (di
nuovo) in alto mare tutto ciò che era posto tra se medesimo
e la riva; nello stesso tempo una parte del suolo, ridotta in cenere
e scagliata in alto, ricadde come un turbine sull’isola; e il
mare si ritrasse per tre stadi e, ritornando poco dopo indietro, con
il riflusso inondò l’isola spegnendovi il fuoco; tale
fu il fragore che gli abitanti della terraferma fuggirono dalla costa
verso la regione interna della Campania (24).
Sembra che le acque termali qui presenti guariscano coloro che soffrono
di mal di pietra. Anticamente Capri aveva due cittadine, poi ridotte
ad una sola. I Napoletani occuparono anche questa ma, avendo perduto
Pitecusa nel corso di una guerra, la ottennero di nuovo per concessione
di Cesare Augusto, che peraltro rivolse a Capri tutte le sue preferenze
e ne fece la sua residenza, costruendovi varie abitazioni.
Queste sono le città del litorale campano e le isole vicine.
10. Nella parte interna vi è la città di Capua, considerata invero come la testa secondo l’etimologia del nome; le altre infatti sono considerate piccoli centri, ad eccezione di Teano Sidicino che è di grande importanza e si trova anch’essa sulla Via Appia, come le altre che portano da Capua a Brindisi, cioè Calatia, Caudio e Benevento. Sul versante di Roma c’è Casilino, costruita presso il fiume Volturno, dove 540 Prenestini assediati dal condottiero Annibale resistettero tanto che, essendosi venduto a 200 dramme un topo del peso di due mine, colui che l’aveva venduto morì, mentre si salvò chi l’aveva comprato. Annibale, vedendoli seminare rape nei pressi delle loro fortificazioni, si meravigliò, come sembra, della loro ostinazione, poiché speravano di resistere fino a che le piante sarebbero arrivate a maturazione; e si dice che sopravvissero quasi tutti, tranne pochi uomini morti di fame o perché uccisi in battaglia.
11.
Oltre quelle già descritte, appartengono ancora alla Campania
le città, di cui abbiamo fatto pure menzione, e cioè
Cales e Teano Sidicino, separate dalle due statue della Fortuna poste
ai due lati della Via Latina. E ancora Suessula, Atella, Nola, Nuceria
(25), Acerra, Abella, e altre più piccole, che da alcuni sono
ritenute pertinenza del Sannio.
I Sanniti, dopo aver spinto le loro incursioni fino alla Via Latina
e alla regione di Ardea, e poi avendo saccheggiato la stessa Campania,
divennero molto potenti. I Campani, già abituati ad essere
governati in modo dispotico, ben presto si sottomisero ai loro ordini.
Ora i Sanniti sono stati del tutto annientati in varie riprese, specialmente
da Silla, dittatore di Roma che si accorse che, dopo aver in molte
guerre frenato le rivolte degli Italioti, essi erano i soli a formare
ancora una comunità molto unita, osando anche porsi contro
Roma, li attaccò nelle loro fortificazioni, alcuni li trucidò
in combattimento (era stato dato l’ordine di non fare prigionieri),
altri, tre o quattro mila uomini, deposte le armi, furono condotti
e rinchiusi nella prigione pubblica e nel Campo Marzio. Tre giorni
dopo, inviati dei soldati, li fece tutti sgozzare e non mise termine
alle proscrizioni fino a che tutto ciò che portasse il nome
dei Sanniti non fosse distrutto o cacciato dall’Italia. A quelli
che chiedevano il motivo di tanta crudeltà rispondeva che aveva
appreso dall’esperienza che nessun romano avrebbe potuto vivere
in pace, finché i Sanniti sarebbero vissuti uniti tra loro.
E, sebbene non siano del tutto scomparse, le loro città ora
sono ridotte soltanto a borghi campestri, come Boviano, Isernia, Panna,
Telesia, confinante con Venafro, e altri ancora, di cui nessuno è
degno di essere considerato come città. Noi ci soffermiamo
a parlarne nella giusta misura, perché si tratta della gloria
e della potenza d’Italia. Tuttavia Benevento, così come
Venosa, si sono ben sviluppate.
12.
Sui Sanniti si tramanda ancora che i Sabini, in guerra per molto tempo
contro gli Umbri, avevano fatto voto, come altri popoli greci, di
consacrare agli dei tutti i prodotti di quell’anno; avendo ottenuto
la vittoria, sacrificarono una parte dei prodotti, e una parte la
consacrarono agli dei. Essendo seguita una carestia, qualcuno disse
che bisognava consacrare anche i neonati. Essi così fecero
e consacrarono ad Ares i fanciulli allora nati, i quali divenuti adulti
decisero di emigrare, lasciandosi guidare da un toro. Giunti nel paese
degli Opici (i quali vivevano in villaggi), li scacciarono e vi si
stanziarono, sacrificando il toro ad Ares che lo aveva fatto loro
guida, secondo quanto dettato dagli oracoli. Verosimilmente per questo
furono chiamati anche Sabelli, con un diminutivo dei loro parenti;
il nome Sanniti, che in Greco è Sauniti, deriva da altra origine.
Alcuni pensano che si siano uniti a loro coloni Laconi e per questo
fossero filellenici e alcuni erano chiamati Pitanati. Sembra che questa
spiegazione sia dovuta ai Tarantini, i quali volevano adulare i vicini
molto potenti e guadagnarsi la loro amicizia, sapendo che potevano
mettere assieme 80.000 soldati di fanteria e 8000 cavalieri. Si dice
che presso i Sanniti esisteva una regola eccellente e stimolatrice
di virtù: non era possibile dare le proprie figlie a chiunque
le chiedesse in sposa, ma ogni anno si giudicavano le dieci migliori
giovani e i dieci migliori giovani; la prima veniva data al primo,
la seconda al secondo e così di seguito. Chi aveva ricevuto
il dono onorifico, se cambiava condotta e ne diventava indegno, veniva
disonorato e gli era tolta la sposa.
Vi sono poi gli Irpini, anch’essi Sanniti, il cui nome deriva
dal fatto che un lupo guidava i loro spostamenti; poiché i
Sanniti chiamano hirpus il lupo. Sono confinanti con i Lucani dell’entroterra.
Questo è quanto concerne i Sanniti.
13. Accadde che per i Campani fatti positivi e negativi sono in egual misura legati alla ricchezza del loro paese. Infatti giunsero a tal grado di piaceri che allestivano dei pranzi in cui era possibile veder combattere coppie di gladiatori, stabilendone il numero secondo l’importanza dei convitati. E,quando Annibale li sottomise e condusse nei quartieri invernali i suoi soldati, li spinsero a tal punto di mollezze che Annibale diceva che, sebbene vincitore, correva il pericolo di diventare preda dei suoi nemici, avendo ritrovato come soldati delle donne piuttosto che degli uomini (26). I Romani, divenendone padroni, li fecero rinsavire dai loro molti mali e infine si annessero il territorio. Ora poi avendo trovato l’accordo coi coloni, mettono a profitto la prosperità della regione e conservano l’antico nome sia per l’importanza che la rinomanza della città.
(*)
Traduzione e note di Raffaele Castagna
(**) Strabone di Amasea sul Ponto (circa 64 a. C. - 19 d. C.): autore
di una Geografia, giuntaci con varie lacune, in 17 libri, dei quali
il V e il VI sono dedicati all’Italia. Pur avendo molto viaggiato,
egli si rifà ai geografi per la descrizione dei luoghi; riporta
notizie di carattere etnografico e per ogni sito su cui si sofferma
fornisce brevi notizie storiche, citando per lo più le sue
fonti (Antioco, Timeo, Artemidoro, Posidonio, Polibio...).