Museo di Paleontologia
di Carmine Negro
Lunedì 11 giugno 1996, alla presenza delle
autorità cittadine e accademiche, è stato presentato
il nuovo allestimento del Museo di Paleon-tologia appartenente al
Centro Musei delle Scienze Naturali istituito dall’Università
degli Studi di Napoli Federico II. Le raccolte del Centro Musei delle
Scienze Naturali, nato per aggregazione degli storici Musei di Mineralogia,
Zoologia, Antropologia e Paleontologia, erano state accumulate nel
corso degli anni senza logica espositiva, in quanto non destinati
a essere mostrati al pubblico ma a fungere da materiale da consultazione
per gli studiosi specializzati. Con l’istituzione del Centro,
l’Università ha voluto rivalutare le antiche collezioni,
non riservarle a pochi specialisti eruditi ma aprirle all’interesse
degli scienziati e alla curiosità dei visitatori comuni. Per
raggiungere questo obiettivo è stato necessario un lungo lavoro
di preparazione, che ha richiesto il consolidamento strutturale e
il restauro di antichi saloni il cui interesse architettonico non
è inferiore al valore degli esemplari in essi accumulati. Per
il nuovo allestimento del Museo di Paleontologia si è dovuto
procedere al recupero del complesso e al restauro del pavimento dell’ex
Monastero di San Marcellino, sede del Museo, ad una nuova disposizione
degli oltre cinquantamila reperti che rappresentano i maggiori raggruppamenti
animali e vegetali - i più antichi risalenti a seicento milioni
di anni fa - e all’esposizione del nuovo ospite, l’unico
esemplare di dinosauro esposto in Italia centro-meridionale, il più
completo presente attualmente nel nostro paese : l’Allosaurus
fragilis.
Il Museo di Paleontologia, annesso agli Istituti di Geologia, Paleontologia,
Geografia e Fisica terrestre dell’Università, è
situato in uno dei locali di quell’edificio religioso che era
il convento dei SS. Marcellino e Festo (1). Questo edificio risale
al secolo XVI, quando le nuove regole del Concilio di Trento imposero
la fusione di due antichissimi monasteri, entrambi risalenti all’VIII
secolo, dei SS. Marcellino e Pietro e dei SS. Festo e Desiderio. La
tradizione vuole che il convento delle monache di S. Marcellino, di
rito basiliano, sia stato fondato nel 795 da Teodonanda, vedova di
Antimo console e duca, utilizzando una parte dello stesso Palazzo
Ducale che sorgeva in questa area, cuore della città medioevale.
Il Praetorium Civitatis, palazzo dimora dei consoli e dei duchi, sede
del governo e del tribunale, che, secondo alcune fonti e purtroppo
assai scarsi ritrovamenti archeologici, doveva sorgere sulla collina
del Monterone, nell’area gravitante intorno all’attuale
via Paladino.
Più antica, ma di poco, risalente probabilmente alla metà
del secolo VIII, la fondazione dell’altro monastero, quello
dei SS. Festo e Desiderio, ad opera di Stefano II, duca dal 755 al
766 e vescovo di Napoli dal 767 (2). Basiliano in origine, il monastero
aderì nel X secolo alla regola benedettina. Come risulta da
numerosi documenti d’archivio, tra i due monasteri contigui
non correvano buoni rapporti. Le monache di S. Marcellino, più
ricche e potenti, fin dalla metà del Quattrocento, avevano
tentato di annettersi l’attiguo convento che, per questo, era
stato costretto a pagare il prezzo della propria indipendenza con
la cessione di parte del suo giardino, utilizzato per l’ampliamento
del monastero vicino. In seguito alle direttive del Concilio di Trento
sulla riforma degli ordini religiosi e dei conventi, il cardinale
Antonio Carafa, arcivescovo di Napoli nel 1564, prescrisse l’unione
al convento di S. Marcellino di quello di S. Festo, malgrado le violente
e prolungate proteste delle suore di quest’ultimo. L’osservanza
delle regole della clausura, imposte dal Concilio tridentino, richiese
la radicale trasformazione degli edifici ed, in particolare, del chiostro
e del dormitorio. I lavori, che si protrassero dal 1567 al 1595, furono
affidati a Giovan Vincenzo della Monica di Cava dei Tirreni. Terminati
i lavori si decise di rifare anche la Chiesa, che sarà realizzata
da Pietro d’Apuzzo, probabilmente su disegno di Giovan Giacomo
di Conforto, e che subirà nel ‘700 un restauro ad opera
del Vanvitelli. Il Chiostro si presenta con una insolita caratteristica
: esso è aperto su di un lato per consentire la vista del panorama;
in quella direzione, infatti, era possibile, all’epoca, la vista
del mare. In funzione del panorama appare studiata la disposizione
di tutto l’edificio conventuale, come testimoniano i piani alti
che sovrastano il porticato: il primo con l’ampio terrazzo balaustrato;
il secondo con la balconata continua. Lo sviluppo delle terrazze,
sempre più arretrate nei piani soprastanti il porticato, accentua
nell’edificio il carattere di vasto belvedere, assicura ad ogni
cella l’apertura verso lo splendido panorama del Golfo, la cui
naturale bellezza era accresciuta dal verde del giardino posto al
centro del chiostro e, con la ricostruzione della Chiesa, dalla cupola
maiolicata ornata, negli spicchi scanditi dai costoloni, da un motivo
geometrico a rombi, dalla raffinata bicromia giallo-nero. L’esigenza
di conservare la veduta del mare anche dal livello del chiostro, oltre
che dalle terrazze digradanti superiori, fu rispettata dallo stesso
Vanvitelli quando intervenne sull’edificio per realizzare una
delle sue ultime opere: il piccolo oratorio della Scala Santa. Disposto
a livello inferiore rispetto al grande spazio claustrale, il chiostrino,
inglobato agli inizi del secolo negli edifici della Università,
appare oggi come un piccolo cortile chiuso, visibile solo affacciandosi
dal terrazzo in cui il chiostro superiore si prolunga. Il monastero
fu soppresso nel 1808, con un decreto di Giuseppe Bonaparte, e il
complesso fu prima ceduto alla Real Casa Carolina (1809) e poi alle
suore della Visitazione (1810). Nel 1829 divenne sede di un Educandato
femminile, conservando questa destinazione anche dopo la fine del
regno borbonico. Nel 1907 l’edificio fu assegnato all’Università
degli Studi di Napoli e nel 1912, dopo la esecuzione dei lavori di
adattamento, si insediarono i vari istituti.
Il Museo di Paleontologia è situato nei locali attigui alla
chiesa dove nel 1738 ebbero inizio i lavori per la realizzazione del
nuovo comunichino successivamente abbellito con marmi, grate “a
giarrette” in ferro e ottone e con cornici dorate. Tra i locali
degno di nota c’è la sala del coro. Secondo la descrizione
redatta nel 1742 in occasione della Sacra visita che doveva fare il
cardinale Spinelli, aveva ai lati “sedili con spalliere di legname”
ed era coperta con volta affrescata con “effigie di Santi”.
Successivamente, probabilmente nel 1810, il comunichino e il salone
attiguo furono trasformati in teatro secondo quanto attesta il Ceci
in “Napoli Nobilissima”. Nel 1740 Giuseppe Massa ebbe
il pagamento per il “pavimento di riggiole impetenate e dipinte
con fogliami, ornati e paesaggi ..poste nelle sale del comunichino...”
e “ ... nella stanza del grande capitolo”. “Il restauro
dei pavimenti maiolicati della Sala Capitolare, del Comunichino, e
dell’ex-teatrino nel Convento di San Marcellino, scrive Luciana
Arbace, ha consentito il recupero di tre opere di straordinario pregio,
che interventi precedenti avevano completamente stravolto, mutilando
i disegni originali o addirittura modificando completamente il primitivo
tessuto ornamentale”.
Il restauro del Museo di Paleontologia non è ancora concluso;
sono in programma la sistemazione delle altre due sale poste a ridosso
di quelle oggi ultimate. I progetti dell’Università verso
il complesso di S. Marcellino prevedono altri interventi quali il
completamento della sistemazione del giardino, del porticato del chiostro
e soprattutto il restauro della chiesa.
La Paleontologia (dal greco “discorso sugli
antichi esseri viventi”) è la scienza che si occupa dei
fossili, e cioè dei resti degli organismi animali e vegetali
vissuti nelle epoche geologiche passate e che sono giunti fino a noi
conservati nelle rocce. Essa ha lo scopo di ricostruire, attraverso
lo studio dei fossili, gli organismi che vissero sulla Terra, le loro
trasformazioni nel tempo, il loro modo di vita, le loro reciproche
relazioni, nonché i cambiamenti geografici e biologici. Raramente
un organismo si conserva integro come fossile : ciò è
accaduto per insetti, foglie e pollini rimasti inclusi nell’ambra,
una resina emessa da antiche conifere e dotata di azione antibatterica
che ha impedito la corruzione delle sostanze organiche. In generale
lasciano resti fossili gli organismi dotati di porzioni del corpo
dure e resistenti : il legno dei vegetali, le costruzioni coralline,
le conchiglie dei molluschi, le ossa dei vertebrati, le corazze chitinose
di insetti e crostacei. Sono considerati fossili, anche, impronte,
tracce di camminamenti, cavità nelle roccia riconducibili a
tane o escavazioni di organismi perforanti, uova o escrementi di organismi
scomparsi.
L’esposizione museale, dopo aver preso in considerazione reperti
di vegetali molto primitivi, Cianoficee ed altri gruppi di alghe,
si sviluppa con i resti dei principali gruppi animali e vegetali che
hanno popolato il nostro pianeta. Tra gli organismi fossili più
caratteristici si possono osservare Ammoniti (molluschi, cefalopodi),
Trilobiti (artropodi) e Foraminiferi (protozoi). Provengono da tre
giacimenti ittiolitiferi della Campania le collezioni dei pesci fossili.
Sono presenti con circa 100 esemplari i pesci del Triassico medio
risalenti a circa 210 milioni di anni fa e trovati a Giffoni Vallepiana
in provincia di Salerno. Ci sono poi i pesci fossili di età
cretacica, di circa 115 milioni di anni fa, trovati a Capo d’Orlando
tra le città di Castellammare e Vico Equense.
Ed infine, sempre di età cretacica e quindi risalenti a 115
milioni di anni fa i pesci fossili provenienti dalla località
fossilifera di Pietraroia in provincia di Benevento. Tra le curiosità
un cranio di Elephas antiquus italicus trovato nel giacimento di Pignataro
Interamna nella valle del Liri (FR) che raggiunse durante il Pleistocene
una grande diffusione in tutte le vallate dell’Appennino.
L’era secondaria o Mesozoico iniziata circa 230 milioni di anni
fa e durata 165 milioni di anni vede il predominio sulla Terra dei
grandi rettili. Nel corso del Mesozoico le diverse masse continentali,
derivate dell’unica terra emersa, la Pangea, si andavano allontanando
tra loro con rari fenomeni di collisioni tra placche. La frammentazione
dei supercontinenti e la dislocazione definitiva in diverse regioni
della superficie terrestre, crea una estrema varietà di situazioni
ambientali che favorisce la diversificazione degli organismi viventi.
Prosperano i pesci ossei e i molluschi (tra i quali le ammoniti),
ma soprattutto la diffusione del gruppo di rettili Diapsidi, caratterizzati
dalla presenza di due fosse nella parete laterale del cranio. I Diapsidi
ben presto raggiunsero un tale grado di diversi-ficazione da riuscire
ad adattarsi a tutti gli ambienti: nei cieli volavano gli pterosauri,
nelle acque nuotavano i coccodrilli e gli ittiosauri e sulle terre
emerse regnavano incontrastati i rettili Saurischi ed Ornitischi,
noti a tutti con il nome di dinosauri. Un esame approfondito dei dati
paleontologici suggerisce che i dinosauri del Mesozoico erano più
attivi di quanto si fosse sospettato e che probabilmente avevano un’organizzazione
sociale paragonabile a quella degli attuali coccodrilli e degli uccelli.
Anatomicamente i dinosauri erano caratterizzati da una disposizione
delle ossa del bacino e dei femori rivoluzionari per l’epoca.
Questa caratteristica fornì ai dinosauri la capacità
di camminare sollevati da terra, ritti sugli arti posteriori, bilanciandosi
con la testa e possibilmente con la coda. La tendenza al bipedismo
risultò vantaggiosa e consentì di invadere nuovi ambienti.
Tra i dinosauri carnivori i più grandi furono i Carnosauri.
Il loro cranio era alleggerito da due grandi cavità ed era
munito di una robusta dentatura; gli arti anteriori erano corti e
talvolta molto ridotti mentre quelli posteriori erano robusti, ed
adatti alla corsa. I Carnosauri erano diffusi nell’America del
Nord, in Asia e forse in Africa. Nel Giurassico superiore i Carnosauri
erano rappresentati in America settentrionale dal genere Allosaurus,
che poteva raggiungere i 12 metri di lunghezza. Gli Allosauri avevano
le orbite disposte in modo da consentire agli occhi una visione quasi
binoculare, simile a quella degli attuali mammiferi predatori. Da
impronte rinvenute nelle rocce del Mesozoico si può dedurre
che gli Allosauri conducevano vita sociale cacciando in branchi. I
denti grandi e seghettati dovevano conferire al loro morso capacità
di taglio notevole. Le zampe anteriori portano tre dita e sono più
sviluppate di quelle dei famosi Tirannosauri.
Lo scheletro di Allosaurus fragilis in possesso dell’Università
di Napoli Federico II, è stato ritrovato negli Stati Uniti
d’America, al confine tra lo stato del Wyoming e dello Utah,
nell'estate del 1993. Esso ha una lunghezza di 8,5 metri, un’altezza
di 3,4 metri ed un peso complessivo di circa 600 Kg. In ottime condizioni
di conservazione delle ossa, rappresenta l’unico esemplare di
dinosauro esposto nell’Italia centro-meridionale e il più
completo attualmente presente nel nostro Paese. La preparazione dello
scheletro ha richiesto circa 6000 ore di lavoro. L’esemplare
è sospeso su tre serie di cavi d’acciaio per non danneggiare
il pavimento maiolicato del settecento presente nella sala e porta
montato un calco del cranio originale, sistemato, quest’ultimo
in una bacheca separata.
(1) “Napoli, città d’arte” Electa (1986)
(2) “Napoli sacra” (1994) Elio De Rosa Editore pag. 350
(3) “Il Museo di Paleontologia dell’Università
di Napoli” Electa (1996)
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