(1999)
La lettera (di Carmine Negro)
È tardi e la notte, questa notte,
è particolare. Il cono di luce della vecchia lampada lambisce
il foglio luminoso che, imperterrito, scorre, divora caratteri,
inserisce spazi, sostituisce simboli. Buio e silenzio si dilatano
tutt’intorno. La radio, a volume basso, gracchia vecchi motivi
ed io vago sulla tastiera alla ricerca di una parola. Quando l’ho
trovata, ne cerco una seconda, e poi ancora un’altra, per
costruire un pensiero che si avvicini a quello che tra i mille si
affollano nella mente. Scrivo le mie parole per vederle tutte insieme,
osservo lo spazio che ognuna occupa, immagino il loro suono e intanto...
passa ancora un po’ di tempo. So però che non posso
più sottrarmi e al solo pensiero mi ritrovo con un nodo alla
gola e gli occhi gonfi che a stento riesco a trattenere. È
difficile affrontare ed affrontarsi quando si è speso la
maggior parte del tempo a fuggire e a sfuggirsi.
Ti scrivo perché non riesco a trovare altro modo per comunicare
con te e attraverso te capire me. Ti scrivo ora che non mi puoi
leggere ma ti immagino vicino ad ascoltare senza parlare, con il
cuore gonfio.
***
La tua casa, la vecchia casa di famiglia,
è ormai del tutto ristrutturata. Ancora oggi, ogni volta
che apro la porta mi emoziono. La stanza da letto è diventata
camera da pranzo, dove adesso è situato il divano c’era
il letto del nonno che immobilizzato passava il suo tempo tra il
giaciglio e la sedia posta vicino al balcone. Lo vedo alzare le
spalle quasi ad accompagnare con un gesto una parola che un male
misterioso aveva reso incomprensibile. E poi la nonna a chiedermi
della mia altezza ed io ad alzarmi sulle punte per superarla e sentirmi
dire che “... tanto, ero più scemo di lei”. In
alcuni momenti la rivedo con le lacrime per il figlio giovane morto
perché caduto dall’albero di noce mentre lavorava..
In alcuni giorni sento zia Giovannina e il sapore profumato che
era vicino al bacile sul sostegno di legno. E poi sul comodino quell’oggetto
in radica di noce che quando aveva le luci accese suonava e cantava;
gli oggetti di zia Maria a cui andavo incontro quando tornava dal
lavoro. E le campane di vetro, i festoni di carta colorata attaccati
sotto le travi, il bastone di mogano scuro della tenda, il pavimento
di cotto antico. Ma tu dove dormivi? Quale era il tuo posto in quella
casa?
Ho restaurato il vecchio armadio ed ho sostituito alle statue della
Sacra Famiglia, che erano situate sul comò, i vestiti ormai
laceri. Cerco di recuperare quanto l’incuria e l’ignoranza
non hanno distrutto, riportare gli oggetti in quella casa. Voglio
scoprirti attraverso le cose quotidiane che ti sono appartenute.
È sconvolgente la quantità di fatti che può
raccontare un mobile, un piatto, un modellino di aereo militare,
una vecchia conchiglia, un fievole segno su di un foglio di carta,
sogno e speranza di una vita passata. Il tempo non è riuscito
a cancellarli, l’incapacità a leggerli li può
distruggere per sempre. Mi piace ascoltare quanto mi raccontano
gli oggetti dintorno, osservo con attenzione quelli dal significato
ignoto, quelli che ancora non mi consentono una loro lettura.
***
Tutti abbiamo avuto un padre; non tutti
abbiamo conosciuto e amato un padre. Tutti, almeno una volta nella
vita, abbiamo odiato il padre. In una società senza padre
più lo rifiutiamo, perché sentiamo la sua insufficienza
che qualche volta è assenza, spesso latitanza. Il padre è
forza, resistenza, regola; l’attivatore e il completamento
della vita. È un bisogno: lottare per conquistare uno spazio,
un luogo, un’idea. È un sorriso accennato in modo distratto
perché discreto. È una presenza nella nostra vita
capace di darci sicurezza, certezza; il padre è lotta; il
padre è desiderio.
Ti rivedo al lavoro tutti i giorni, di domenica mezza giornata.
Premuroso cercavi di non far mancare niente alla famiglia, di consentire
gli studi a chi aveva intenzione di continuarli, di essere generoso
non solo con gli amici ma anche con gli amici degli amici fino a
dare tutto.
Quando aprivi la “bottega”, il tuo laboratorio, nessuno
passava senza un saluto, una battuta, un racconto, una parola inglese
imparata nel tuo soggiorno americano o da un amico venuto a trovarti
che trascrivevi con una grafia elegante, ma ahimé in modo
non sempre corretto, sui pezzi di legno che ti capitavano sottomano.
Poi la malattia, così terribile da limitarti nei movimenti,
impedirti il riposo, qualche volta negarti la parola. Allora la
rabbia e l’impotenza si impossessavano di te e nei tuoi occhi
aleggiava la disperazione. È impressionante vedere come la
sofferenza riesca a segnare il corpo, il volto e gli occhi di chi
ci è accanto costringendoci ad accettare ciò che i
nostri sensi rifiutano con forza. Quei muscoli contratti, quegli
occhi profondi e vuoti sono lì a ricordarci che la vita è
fugace e che il “nostro” mondo viaggia su certezze dalle
gambe fragili.
***
In ogni uomo c’è un momento
in cui si soffre l’abbandono da tutto e da tutti. L’abbandono,
più della malattia, segna chi la vive ma anche chi sta intorno
come momento di vuoto, di assenza. E t non sei stato risparmiato.
Durante l’ultimo periodo, un estraneo condivideva con te le
notti fatte di sofferenza ma anche di disperazione che il cuscino
fatto a pezzi ben esprimeva. E nell’ultima notte mentre tu
lottavi sospeso tra la vita e la morte, sopraffatto dalla stanchezza
ti abbracciavo chiedendoti di farmi riposare. Come è triste
la condizione umana, l’incapacità a decifrare ci fa
ciechi, intolleranti, incredibilmente egoisti.
Dopo la morte toccavo le tue mani, anche quella senza dita, quelle
dita che sapevo non c’erano più, accarezzavo quegli
atomi che si erano allontanati come i compagni di viaggio alla fine
di una corsa. Chissà quanti già hanno lasciato quel
corpo per un altro corpo, pronti a realizzare un’esperienza
spazio-temporale in un’altra vita mentre resta la traccia
più o meno forte a segnare in modo immateriale una presenza
che una volta era materiale.
***
Mi chiedo spesso quale sia il motivo
che ci spinge a sottrarre alla morte quei brandelli di vita che
resistono al tempo, quando nella vita li abbiamo trascurati o volutamente
negati spesso per quel desiderio di opporci alla regola, di opporci
al padre, a quella certezza che sappiamo non esistere più
tra gli oggetti e i pensieri terrestri dell’uomo. E in assenza
di una presenza che dia certezza l’urlo drammatico dei compagni
di viaggio che, nel ritmo assordante di se stessi, senza la memoria
storica di una provenienza né il desiderio di un traguardo,
attendono il disfacimento totale frastornati dal rumore e ubriachi
del nulla.
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