IL REGNO DI NAPOLI DAGLI ANGIOINI
AGLI ARAGONESI
Napoli
diventa capitale - Il Regno
Angioino - Il Regno Aragonese
di Carmine Negro
Napoli diventa capitale
- I1 13 dicembre 1250 moriva Federico II lasciando erede dell’impero,
del Regno di Sicilia e di Gerusalemme il figlio Corrado IV; vicario
in Sicilia e in Italia il figlio naturale Manfredi. Essendo Corrado
IV impegnato in Germania nel tentativo di farsi riconoscere imperatore,
Manfredi amministrò l’Italia in modo autonomo e alla
morte di Corrado IV (1254) e alla notizia, risultata poi falsa, della
morte dell’erede al trono Corradino, un bambino di appena due
anni, si fece proclamare re di Sicilia (1258). Il 26 febbraio 1266
Manfredi fu sconfitto a Benevento da Carlo d’Angiò che,
s’impadronì di tutto il Mezzogiorno e vi insediò
feudatari francesi. Incoronato re di Napoli, entrò nella nuova
capitale il 7 marzo 1266, con la consorte Beatrice in virtù
dell’investitura di Clemente IV. Carlo d’Angiò,
avendo interessi anche in Francia e nel nord dell’Italia, spostò
la capitale da Palermo a Napoli; la vecchia capitale sarebbe stata
per lui troppo decentrata.
Il Regno Angioino
- Carlo d’Angiò sempre assillato dal bisogno di danaro
sia per pagare i debiti contratti per venire in Italia, sia per le
nuove velleità di conquista fu costretto ad imporre imposte
e balzelli. Essendo esenti dalle nuove imposte nobili, provenzali
ed ecclesiastici, il peso di questo regime fiscale finiva col cadere
quasi completamente sulle spalle del ceto medio e del popolo generando
malcontento e causando tumulti come i moti siciliani del 1282.
L’avvento degli Angioini portò alcuni mutamenti legislativi
in particolare furono effettuati mutamenti negli uffici del protonotario
e del cancelliere. Fu lasciata la divisione del territorio quale era
precedentemente in undici province a capo delle quali era un giustiziere;
i giustizieri due volte l’anno dovevano presentarsi davanti
al re per esporre il loro operato. Le esazioni fiscali avvenivano
per mezzo di taxatores provinciali che passavano nelle città
e nelle campagne, vi erano poi i collectores, che appaltavano l’importo
che doveva essere versato all’executor. Il re riceveva poi,
tramite i suoi funzionari, l’importo di queste collette.
Per quanto riguarda il sistema amministrativo la città o università
di Napoli era sempre divisa in regioni, ma il termine antico fu sostituito
con l’altro di “piazza”. In questi sedili i nobili
erano divisi dal popolo. Gli stranieri, gli ebrei e gli studenti non
facevano parte dell’università cittadina, anche se ne
aumentavano la popolazione che salì dopo la destinazione a
capitale a circa 60.000 abitanti.
Carlo I al suo arrivo a Napoli si stabilì in Castel Capuano.
Dopo qualche anno cominciò a desiderare una reggia più
comoda e più degna del suo rango. Una reggia a quei tempi non
poteva che essere un castello e il re decise di farlo costruire presso
il porticciolo dei pisani, in una zona fuori le mura che era chiamata
“campum oppidi”. Alle pendici del colle Paturcium che
sarà poi Sant’Elmo si ergeva presso un antico palazzo
la chiesa di Santa Maria ad Palatium, officiata dai primi francescani
giunti a Napoli. Quando il re decise di costruirsi la reggia pensò
proprio a quel sito, dove sorgeva la chiesa francescana. Il sito era
salubre, abbastanza vicino al mare da assicurare buone possibilità
di difesa, nell’evenienza di uno sbarco, da permettere una fuga,
se il pericolo fosse venuto dalla terraferma; era soprattutto un luogo
non troppo lontano dalla città’ le cui mura giungevano
sino al Largo delle Corregge (l’attuale Via Medina) dove si
apriva la “Porta Petruccia”. Ai frati fu eretto, su un
suolo detto “de albino”, presso la “Porta Petruzzola”,
una chiesa e un convento più grandi e più belli di quelli
che avevano, e fu pagato quanto era loro espropriato ad un prezzo
superiore a quello stimato.
La costruzione dello “chateau neuf” come era chiamato
fu affrontata con larghezza di mezzi e di materiale umano: la direzione
dell’opera fu affidata all’architetto francese Pierre
de Chaule e completata in 56 mesi. Ad oriente la reggia confinava
con la spaziosa “platea Corrigiarum” che giungeva fin
sotto le mura di Napoli e a quella “Porta Petruccia”,
con un livello altimetrico inferiore a quello dell’attuale Via
Medina. Sul lato occidentale il terreno fu trasformato in un giardino
che giungeva, da un lato, sino al monastero di San Pietro al Castello
e, dall’altro, al mare. Lo “chateau neuf” era però
in origine molto differente da quello che oggi vediamo: torri molto
affusolate e slanciate come quelle dei castelli francesi di quell’epoca
e l’ingresso principale non dove è quello attuale, ma
rivolto verso la città. Della struttura originaria del castello
non ci è rimasta alcuna configurazione, ma da documenti in
parte ancora esistenti si sa che esso aveva una pianta quadrilatera
e torri di difesa sia verso la terra sia verso il mare. Intorno al
maniero correva un profondo fossato e la porta di ingresso, fiancheggiata
da due torri, comunicava con l’esterno per mezzo di un ponte
levatoio che s’alzava e s’abbassava con un congegno di
ruote e catene. Merli e caditoie per i balestrieri erano defilati
alla vista e ai tiri dell’attaccante, dando la possibilità
di poter gettare sugli assalitori pietre, sassi ed olio bollente.
E’ indubbio che la venuta degli Angioini e la scelta della città
come capitale conferì una svolta decisiva alla vita di Napoli.
A Carlo I successe Carlo II, e a questi il figlio Roberto che fu chiamato
“il più saggio tra i cristiani” e il “pacificatore
d’Italia”. Roberto, capo del partito guelfo ebbe interessi
nel campo letterario ed artistico che lo spinsero a contornarsi delle
migliori menti del suo tempo ed a chiamare a Napoli gli artisti più
quotati, i letterati e gli scienziati più famosi per lo Studio
Generale.
L’egemonia in Italia della casa d’Angiò guidò
anche la politica del re Roberto d’Angiò (1309-1343)
che si presentò come il sostenitore delle forze nazionali contro
le interferenze tedesche, come il pacificatore della penisola, ottenendo
il consenso di artisti, peti e studiosi. La corte di Napoli divenne
sotto di lui, uomo sensibile e colto, un fiorente centro di attività
intellettuale. Vi si formò un’importante scuola giuridica,
vi operarono pittori come Giotto e Simone Martini, vi soggiornarono
poeti e scrittori come il Petrarca e il Boccaccio. Questa fastosa
apparenza tuttavia celava una grave crisi interna. Il potere della
corona era limitato dalle tendenze anarchiche dei baroni, tendenze
che Roberto d’Angiò si sforzò di contrastare concedendo
altre terre, detratte dal patrimonio demaniale, e altri privilegi,
con il risultato di diminuire le entrate e le prerogative della monarchia.
D’altronde questa non aveva la possibilità di appoggiarsi,
come succedeva per le altre monarchie europee e gli stessi stati dell’Italia
Settentrionale, sul ceto borghese, debole economicamente e compresso
nei privilegi della nobiltà e del clero. Nel regno di Napoli
avveniva allora un processo inverso a quello che era in atto negli
stati europei: la corona anziché combattere la nobiltà
con l’aiuto della borghesia aveva scelto la via del compromesso;
in questo modo fra il XIV secolo e la fine del XV secolo la feudalità
ben lungi dall’essere una articolazione periferica del potere
statale, come era al Nord, era una classe potente e ricca, che deteneva
nelle proprie mani la vita economica di paesi e villaggi.
Un altro motivo di crisi del Regno era rappresentato dalla massiccia
presenza nella sua vita economica di forestieri, in particolare Fiorentini
e Catalani, che si accaparrarono ogni tipo di posti e di favori, facendo
spesso prevalere interessi estranei a quelli locali.
Una rigida struttura feudale, importata dalla Francia invece di creare
condizioni adatte all’affermarsi di attività mercantili
e finanziarie e dello svilupparsi della borghesia, andava soffocando
e spegnendo quei centri e quelle correnti di attività commerciale
e marinara che dal tempo delle repubbliche marinare, fino in pratica
all’insediamento degli Angioini avevano assicurato al Mezzogiorno
della penisola una notevole prosperità economica. Questo processo
di diffusione del feudalesimo sotto il dominio angioino avveniva proprio
nel periodo in cui le città dell’Italia centrale e settentrionale
erano le protagoniste del grande sviluppo commerciale e finanziario
realizzato dall’Europa centro-ccidentale. Si creava così
una situazione di arretratezza della parte meridionale della penisola
italiana rispetto a quella centrale e settentrionale, una frattura
fra questa e quella, nello sviluppo economico e politico che si sarebbe
sempre più definita ed aggravata nei secoli successivi.
La crisi del Regno di Napoli si manifestò pienamente alla morte
di Roberto d’Angiò cui successe la nipote Giovanna. Fu
sotto il regno di Giovanna I (1343-1382) che lo stato napoletano apparve
in piena disgregazione in balìa di forze e sovrani stranieri,
lacerato dai contrasti e dall’anarchismo della feudalità.
Per lunghi anni, anche dopo la morte di Giovanna I arse un’aspra
guerra tra Angioini e Durazzeschi. Nella guerra entrò a far
parte ad un certo momento Alfonso V d’Aragona, re di Aragona,
Sardegna e Sicilia.
Napoli
diventa capitale - Il Regno
Angioino - Il Regno Aragonese
Il Regno Aragonese
- Il primo tentativo di Alfonso il Magnanimo di prendere la città
dal mare, con le galee giunte dalla Catalogna fallì; anzi e
durante l’assedio posto al convento del Carmine perse la vita
il fratello Pietro. Nel 1441, con lo stratagemma già usato
da Belisario nel 535, riuscì a far entrare i suoi catalani
in città attraverso un antico acquedotto in disuso; usciti
dal pozzo di una casa prossima alla Porta di Santa Sofia, gli spagnoli
si impadronirono di questa porta e poterono liberamente entrare in
città.
La città che il Magnanimo aveva conquistato si presentava in
condizioni miserevoli. Sottoposta a incessanti bombardamenti con i
più moderni pezzi di artiglieria dell’epoca presentava
alcuni borghi periferici, come quello di S. Antonio o quello delle
Corregge, completamente distrutti mentre la popolazione era stata
decimata dalla guerra e dalla carestia.
Dopo circa 250 anni la Sicilia e il napoletano ritornarono sotto lo
stesso sovrano che per questo fu chiamato “re delle Sicilie”;
anche se il regno fu unico ciascuna parte conservò la propria
amministrazione giuridica. L’unione era garantita solo dalla
persona del re e si frantumò appunto alla sua morte. Da questo
momento e fino al secolo XIX Napoli divenne dominio spagnolo assorbendo,
in tal modo, pregi e difetti di questo popolo.
Alfonso V d’Aragona, che diverrà Alfonso I, fondatore
della nuova dinastia aragonese napoletana, aveva sposato in giovane
età la cugina Maria di Castiglia, dalla quale non aveva avuto
figli; questo matrimonio era riuscito a rinsaldare i legami tra l’Aragona
e la Castiglia. Spesso lontano dalla moglie il sovrano ebbe numerose
relazioni amorose dalle quali ebbe tre figli, due femmine Isabella
e Monica e un maschio Ferdinando chiamato dagli spagnoli Ferrando
e dagli italiani Ferrante. Alfonso amò moltissimo questo suo
figlio che volle tenere a suo fianco e designare come successore ed
erede del regno di Napoli. Nel 1443 sottomise la questione al consenso
del Parlamento convocato a Napoli e ne ottenne l’accettazione;
successivamente anche il pontefice, dopo un periodo di resistenza,
diede il suo consenso alla successione di Ferrante sul trono di Napoli,
in ossequio a quanto aveva accettato il parlamento. I rapporti con
il papato, dal momento che durante la guerra di successione questo
aveva parteggiato per il pretendente angioino, fu il primo problema
politico-diplomatico affrontato dal sovrano. Alfonso che aveva sostenuto
il concilio di Basilea e favorito lo scisma, preferì prendere
le distanze dall’antipapa Felice V e nel trattato di Terracina
del 14 giugno 1443 si impegnò a riconoscere il vassallaggio
del Regno alla Santa Sede, con relativo obbligo del censo annuo, a
partecipare alla liberazione della Marca d’Ancona dall’invasore
Francesco Sforza e a scendere in campo contro i Turchi. In questo
modo ottenne da Eugenio IV il 6 luglio 1443 la bolla di investitura
ed il 15 luglio 1444 il diritto alla successione per il figlio Ferrante.
La politica intensa di Alfonso mirò soprattutto al rinnovamento
delle strutture statali; Napoli come sede regia accanto al ruolo di
capitale del Mezzogiorno assumeva la funzione di centro politico di
tutto l’impero aragonese. La convocazione del Parlamento generale
nel convento di San Lorenzo, i cui lavori si tennero dal 28 febbraio
al 9 marzo 1443, fu uno dei primi atti compiuti dal sovrano. In quell’occasione
sovrano e baroni misero a punto i provvedimenti da assumere per una
riforma dei tribunali e del fisco. A Napoli fu stabilita la Cancelleria
generale e la suprema corte di appello, il Sacro Regio consiglio le
cui sentenze esercitarono molte influenze sulla dottrina giuridica
del tempo; di esse si fecero importanti compilazioni come quella di
Matteo d’Afflitto uno dei massimi giurisperiti dell’epoca.
L’aspetto di maggiore rilievo del rinnovamento in senso moderno
delle strutture statali si conseguì con la riforma fiscale
che sostituiva la colletta angioina, straordinaria e di impronta feudale,
con una esazione più razionale, che indirizzava il prelievo
sul fuoco, vale a dire sulla famiglia, che contribuiva come nucleo
(un ducato di imposta per fuoco) ma anche come individui singoli,
qualora produttori di un reddito.
Il 27 giugno il Magnanimo si spense in Castelnuovo; sul trono di Napoli
gli successe il figlio Ferrante duramente contestato dal papa Callisto
III. Alla sua morte (6 agosto 1478) il successore Pio II consentì
all’investitura che avvenì a Barletta il 4 febbraio 1459.
Subito dopo l’incoronazione scoppiò una rivolta animata
dal marchese di Crotone Antonio Antelles a cui si unirono Antonio
Caldera, Giona Acquaviva, il cognato Ferrante Marino Marbele, principe
di Rossano e duca di Sessa, il principe di Taranto e un condottiero
come il Piccinino che Alfonso aveva protetto. Prese così avvio
la prima congiura dei baroni che si concluse con la vittoria nella
battaglia di Troja operata dalle truppe di Ferrante. Le fasi di questa
guerra furono descritte sulle porte di bronzo di Castel Nuovo, Giovanni
d’Angiò figlio del re Renato progettò la conquista
di Napoli dal mare. Il tentativo fallì perché la regina,
avvertita dal duca di Milano, aveva predisposto la difesa della città,.
Ferrante dopo avere sconfitto i baroni, attaccò Ischia dove
l’Angioino, perso l’appoggio degli insorti, aveva trovato
rifugio presso il fedele Giovanni Torella. L’Aragonese ottenne
una grande vittoria riportata da Francesco Pagano nella celebre Tavola
Strozzi.
Il regno di Ferrante tra il 1485 e il 1488 fu ancora travagliato dalla
grande congiura dei baroni e solo dopo, come ricorda Giannone, “dissipati
i suoi nemici, ed arricchito dalle rovine di tanti grandi signori,
dai quali ebbe un grande tesoro inestimabile, la monarchia poté
godere di un periodo di tranquillità”. A Ferrante che
morì il 25 gennaio 1494, successe Alfonso II ma ben presto
con la discesa di Carlo VIII si avvicinava la fine del Regno e della
sua autonomia con la conseguente sua spartizione (accordo segreto
di Granata dell’11 novembre 1500; spartizione del Regno tra
Francesi e Spagnoli).
La fama che circondò la corte aragonese grazie all’impegno
profuso dal re Alfonso I fu grande ed influenzò la vita culturale
del Mezzogiorno. Il re dava all’Umanesimo, cioè agli
studi letterari, il sostegno finanziario e persino una certa indipendenza
anche se non svincolata dal debito della gratitudine. Numerosi letterari
accompagnarono l’Aragonese nelle sue spedizioni militari o soggiornavano
a corte; tra questi ricordiamo Antonio Beccadelli detto il Panormita,
il Pontano, Lorenzo Valla.
La biblioteca regia si accrebbe al punto che chi la frequentò,
già nel 1443, la definì “librorum infinitorun
ornatam”
Quando la città fu conquistata dagli aragonesi, la reggia angioina
si presentava, dopo 60 anni di guerre, quasi del tutto distrutta,
il nuovo sovrano dovette totalmente ricostruirla. Sotto la guida del
castellano Arnaldo Sanz fu iniziata la costruzione del forte che proseguì
fino al 1458 anno in cui il re morì.
Il castello fu arricchito delle cinque torri ancora oggi esistenti
( Torre dell’Oro, Torre del Beverello, quella di San Giorgio
e le due della Porta ); la direzione dei lavori che nel 1448 era stata
affidata a Pertello de Marino, nel 1458 passò a Mayorca Guglielmo
Sacrera, un architetto che, utilizzando i dettami, conosciuti all’epoca,
dell’architettura militare, effettuò la vera trasformazione
del maniero. Le grandiosi torri ed il fossato la cui larghezza fu
raddoppiata stanno a dimostrare il carattere difensivo conferito al
castello, le numerose sale, i loro affreschi a rievocare il fasto
a ricordare il carattere di reggia sontuosa.
Numerose strade collegarono Castel Nuovo con gli altri castelli, con
Castel dell’Ovo e con il borgo di Chiaja; fu proseguita la lastricatura
delle strade, ripresi i lavori di bonifica per prosciugare le paludi,
resa vivibile e suggestiva la capitale del regno.
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Angioino - Il Regno Aragonese
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