LUIGI
COPPA
di Carmine Negro
Erano forse le undici e la calura già cominciava
ad invadere le strade. Forio, d’estate, raggiunge temperature
elevate già di mattino e i numerosi ospiti che, in questo periodo,
la invadono, ne riempiono le spiagge, si tuffano nelle sue acque.
Di sera poi con il fresco sono tutti a passeggiare per i luoghi più
suggestivi: il Soccorso, la Marina, il Corso. Lungo il Corso, in piazza,
c’è il Bar di Maria, che negli anni Cinquanta quando
il turismo di massa non aveva ancora snaturato angoli e tradizioni
era il luogo di ritrovo di pittori, letterati, poeti, registi ecc.
La tradizione era continuata anche dopo, quando la maggior parte degli
artisti non sceglieva più Forio per le sue vacanze-rifugio
e la proprietaria era scomparsa. Così anch’io nei primi
anni della mia permanenza a Forio mi sono ritrovato, prima dell’ultimo
rinnovo del locale, con gli amici sotto il pergolato al profumo di
glicine. E’ stato Pietro Paolo Zivelli, a farmi rivivere quella
grande scuola all’aperto che era il ritrovo di Piazza Pontone,
e a presentarmi uno degli artisti di questa città: Luigi Coppa,
da tutti conosciuto come Gino, persona semplice e profonda, amabilissima
nella conversazione. Ho incontrato spesso “il maestro”,
così l’ho sempre chiamato con affettuoso rispetto, qualche
volta nel suo studio, altre volte in piazza; la discussione si è
sempre rivelata ricca e stimolante.
Dopo nove anni lascio Forio; approfitto di questo momento per salutarlo.
Lo studio di Gino è molto grande; è il luogo dove riinventa
colori e accostamenti ma sopprattutto dove dà forma alle proprie
creature. Mi ha sempre dato molta emozione entrarvi; produce forte
impressione vedere questi frammenti di colori e schizzi, talvolta
di piccolo formato altre volte di grosse dimensioni, sparsi sui cavalletti
o fissate su grossi piani, in attesa di essere completati, senza che
se ne sappia nè il modo in cui questo avverrà, nè
i tempi che si rendono necessari.
All’inizio il discorso verte sul caldo, poi su di una giacca
che ha cucito da solo, infine si focalizza sulle sue ultime fatiche;
l’incontro diventa piano piano più familiare così
Gino mi racconta alcuni momenti della sua esperienza.
“La guerra, è stata un’esperienza terribile. Io
faccio parte di quella generazione che ha vissuto in estrema miseria
e che ha sofferto la fame. Io ho sofferto la fame. In casa mia eravamo
in tre: io, mia sorella e mia madre. Mia madre si arrangiava come
poteva, faceva dei lavoretti, soprattutto di cucitura e nel giardino
del nonno coltivava aglio, cipolle, patate per poter sopravvivere.
Avevo più o meno l’età di un anno quando papà
mi ha lasciato; è partito per l’Africa per il “posto
al sole” di Mussolini. In Africa nel primo e nel secondo anno
ha fatto vari mestieri tra cui l’apprendista in un caffè
di Asmara; ha poi conosciuto un ingegnere italiano e con lui ha lavorato
come esperto in caldaie per l’asfalto. Col tempo, la ditta si
ingrandì e lui fece fortuna. Nel periodo della guerra, fatto
prigioniero, fu aiutato dagli inglesi a scappare; per questo poteva
essere fucilato. Visse in un villaggio e rimpatriò qualche
anno più tardi ufficialmente perchè se ne era fuggito.
Ritornò a casa quando io avevo ormai 15-16 anni; in effetti
questa lontananza l’ho sentita molto: a me è mancato
il padre.
Per mia madre io ero un tipo terribile; per i ragazzi di Forio un
punto di riferimento. In un periodo con gli amici abbiamo organizzato
il teatro senza testo. Con i banchi di scuola, con tavole e con cassette
costruivamo un palco, ci vestivamo come potevamo e all’impronta
improvvisavamo testi. In un altro periodo mi era venuta la passione
per gli aerei e non avendo a disposizione materiali costruivo i miei
aerei con canne palustri che lavoravo con lamette arrugginite; foderavo,
poi, le mie creazioni con carta di giornale rubata. Di giornali, in
quel periodo, a Forio ne arrivavano solo tre copie e quelle poche
venivano utilizzate per accendere il fuoco visto che non c’era
gas. Un ricordo di quegli anni mi rimane particolarmente nitido: i
ripetuti e continui viaggi in montagna; quasi tutte le mattine io
e mia sorella appena svegli ci recavamo in montagna a cercare legna
o altre cose più commestibili come le castagne sempre attenti
a non sconfinare nelle proprietà private perchè si andava
in galera, una ricerca che sapeva di sopravvivenza. Io ero un ragazzo
estremamente vivace, di carattere forte, che non riusciva a stare
un attimo fermo; facevo volare quegli strani aerei, con gli amici
organizzavo scherzi molto fantasiosi per lo “sfizio” di
muovere, vedere le reazioni, effettuare sperimentazioni. Uno dei maggiori
scherzi del ‘44 (avevo appena 10 anni) consisteva nel sistemare
i ragazzi vicino ai saliscendi delle porte dei negozi di Forio e ad
un fischio farli muovere simultaneamente con relativo roboante rumore
ad imitazione dei bombardamenti di Napoli; poi di corsa a scappare.
O ancora quando si andava a “bumbardà a Centriell”,
con l’osservatore che guidava l’avanzata e il tiro, e
i ragazzi che lanciavano palle di sabbia tra sacchi di castagne e
carrube, tra le ire del negoziante.“
Una telefonata interrompe questo viaggio tra i ricordi; mi mostra,
poi, alcune fotografie del palazzo dove è nato il re d’Austria,
trasformato in museo. E’ lì che si è tenuta la
sua ultima mostra. Mi illustra le varie parti di questo palazzo: l’angolo
utilizzato per la vendita di cataloghi, libri e manifesti, la scala,
il primo piano dove è esposto il suo “Bagnanti”
di tanti anni fa. Mi conduce per gli 11 saloni, mi parla del discorso
di Stent, del vicesindaco, dell’addetto alla cultura, del notaio
di Essen che ha curato alcune sue mostre in Germania negli anni precedenti.
Poi continua il suo racconto.
“Finita la guerra l’unico mestiere valido che si presentava
ai giovani era navigare. A Procida funzionava l’istituto nautico
dove si poteva conseguire il titolo di capitano di macchina; per conseguire
il titolo di capitano di lungo corso bisognava raggiungere Napoli
e studiare all’Istituto che si trovava a Salita Tarsia.Tutti
i miei amici avevano scelto questo tipo di studi e mia madre voleva
che anch’io optassi per tale indirizzo. Poichè io non
sentivo di fare una tale scelta ogni giorno a casa mia c’erano
litigi terribili; mia madre era arrivata al punto che incendiava i
miei quadri. Poveretta lei aveva l’esperienza di Brancaccio,
un pittore di Napoli che viveva nelle ristrezze e che si faceva regalare
le bucce di patate perchè con esse lui riusciva a cucinare,
a suo dire, minestre meravigliose. Vedendo questo pittore anziano
che non riusciva a guadagnare per mangiare, allora i pittori facevano
la fame, giustamente mia madre si preoccupava per il mio futuro. In
fondo il mercato dell’arte nella nostra isola è piuttosto
recente. Io, comunque mi imposi; anche Bargheer, che avevo conosciuto
in quel periodo, sosteneva che io dovessi frequentare la scuola d’arte.
Papà non c’era, soldi non ce n’erano molti e quei
pochi che spediva a mia madre servivano per la casa; in altre parole
ho ripreso gli studi quando avevo 20 anni. Il mio rapporto con la
scuola è stato sempre molto particolare. Ho frequentato due
volte la terza elementare, malgrado la promozione in quarta, perchè,
secondo mia madre il mio maestro era un incompetente ed io dovevo
cambiare classe, andare con un altro maestro e poichè questo
insegnava in una terza dovetti ripetere la classe. Finita la quinta
elementare venni promosso ma mia madre andò a parlare con un
altro maestro ed io dovetti frequentare di nuovo questa classe.
Nella mia vita ho fatto tutti i mestieri: il fabbro, il falegname,
il muratore; sono stato persino da un sarto dove imparavo a fare le
asole. Ecco perchè mi sono fatto questa giacca. Finalmente
mio padre decise che potevo andare a Napoli, mi pagò gli studi.
Erano tutti fissati che io conseguissi un titolo di studio. A Napoli
dividevo la stanza con Vito Mattera che frequentava l’Istituto
Nautico di Salita Tarsia. Quando andai all’Istituto d’Arte
già avevo partecipato a mostre di carattere nazionale e cominciavo
a vendere i primi quadri. All’Istituto d’Arte non mi iscrissi
in pittura ma in ceramica per apprendere nuove tecniche.”
Mi mostra, poi, alcune composizioni; mi parla della terra di Siena,
definita da alcuni pittori come il colore degli angeli, degli accostamenti
particolari e preziosi che si possono fare con il verde mare, del
percorso della sua arte, mai casuale, sempre ragionata e meditata,
sempre alla ricerca di una soluzione.